di Angelomichele De Spirito
San Giorgio del Sannio, a 9,54 km da Benevento, si estende su di un territorio di 23 kmq, a 380 m s.l.m. e all’altezza massima di 508 m. Conta ad oggi (2022) 9.730 residenti, situandosi nei 78 comuni della provincia al quarto posto, dopo Benevento, Montesarchio e Sant’Agata de’ Goti. Fino al 19 luglio 1929 si chiamò San Giorgio la Montagna, abbreviazione di San Giorgio della Montagna di Montefusco, capoluogo di Principato Ultra dal 1273 al 1806.
La prima notizia storica del paese risale al X secolo, secondo nuovi studi e ricerche da me iniziati a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Più precisamente – come ricorda il “Parco del Millenario”, che proposi fosse così intitolato –, ci si riferisce al 991/992, quando il principe longobardo di Benevento Pandolfo II e suo figlio Landolfo V concedettero al monastero benedettino di San Modesto la «ecclesia Sancti Georgi de loco Vico cum omnibus pertinentiis, pro salvatione anime nostre nostreque patrie». Del resto, anche la titolarità della chiesa fa ritenere che quell’incipiente (o rinascente) insediamento umano fosse di origine longobarda, in quanto quel popolo nutriva particolare devozione ai santi condottieri, quali l’arcangelo Michele e, per l’appunto, San Giorgio. Quindi, a ragione può dirsi che da quell’ antica chiesa badiale ebbe origine e nome il paese. Ubicata là dove ora si estende il cimitero con la chiesa del Rosario – ricostruita subito dopo il terremoto del 1732, col titolo dell’antica confraternita –, era «nullius dioecesis», cioè direttamente soggetta alla S. Sede, e di patronato laicale fin dal 1492. Di essa tutto ciò che resta è una «maestrevole» tela raffigurante la Madonna del Rosario con S. Gregorio Nazianzeno e le Anime del Purgatorio, che scoprii essere stata benedetta nel 1672 e che ho fatto restaurare 350 anni dopo.
Quel borgo, intanto, nel corso dei secoli, con l’aggiungersi di casa a casa, dalla collina digradava al piano, formando «sette piccoli casali»: Toppa (cioè cima, sommità), Fontana (da una sorgente o cisterna), Marzani (forse da S. Marciano), Ianari e Magli (da nomi di famiglie) – oppure Triggio o San Rocco (dall’incrocio di tre vie o dall’omonima chiesa) –, infine Piano e più giù Casalnuovo (così indicato già nel XIV secolo). Da qui – cioè dall’odierna piazza Risorgimento e adiacenze –, alla distanza di qualche miglio, da un lato, verso Benevento, si giungeva al casale di Ginestra, l’antica Santa Maria a Vico, con la chiesa gotica «situata in aperta pianura» e distrutta dal sisma del 1732; dall’altro, verso Avellino, al casale di Sant’Agnese, già citato nel XII secolo. Ambedue queste Terre, dopo diversi feudatari, l’una fu acquistata nel 1728 dal patrizio beneventano Giovanni Battista II dell’Aquila; l’altra nel 1658 dai baroni Ventimiglia Sellaroli. E nel 1811, per contiguità ed esiguità di abitanti – qualche centinaio –, furono unite al comune di San Giorgio. Altre tre località campestri vi appartengono: Bosco Lupino, Monterone e San Giovanni a Marcopio con l’omonima chiesa, donata nel 1135 da Giovanni di Montefusco al monastero di Montevergine, e restaurata nel 2002.
Nell’età medievale, dopo il distacco dalla baronia di Montefusco il primo signore o feudatario di San Giorgio fu Rostagno de Maasan, un cavaliere francese venuto dalla Provenza al seguito di Carlo d’Angiò, che, dopo aver sconfitto Manfredi di Svevia «in co del ponte presso a Benevento» (Dante, Purgatorio, III, 128), gli donò quel casale l’8 luglio 1269. Poi, fu dato al cavaliere Giovanni de Lupert e al nobile Americo de Sus, anch’essi francesi; quindi ai Giamvilla e al cavaliere Pippo Caracciolo di Napoli, e di nuovo ai Giamvilla. Si era all’inizio del Cinquecento quando, per il matrimonio di Rebecca Brancaccio, figlia di Pietro e di Ilaria Giamvilla, con il barone di Napoli Pier Giovanni Spinelli, il feudo di San Giorgio passò a costui (1522). Sul finire del secolo, il nipote Pier Giovanni III accrebbe i suoi beni acquistando nel fertile Cubante, attraversato dalla via Appia (e oggi nel comune di Calvi), il palazzo fatto costruire dall’imperatore Federico II nel XIII secolo. (Cfr. A. De Spirito, Il palazzo al Cubante dei principi Spinelli di San Giorgio, in Itinere veritas. Studi in onore di Laureato Maio, a cura di M. Iadanza, Benevento 1998, pp. 41-72).
Alcuni anni prima, intorno al 1585, Pier Giovanni e sua moglie Lucrezia Caracciolo dei marchesi di Vico, avevano fondato, in località Casalnuovo, il convento e la chiesa dell’Annunziata. Affidati dal 1591 al 1659 ai Frati Minimi di S. Francesco di Paola, tuttora raffigurato in un’espressiva statua d’epoca, nel 1687 passarono ai Frati Minori di S. Francesco di Assisi, per volere dell’arcivescovo di Benevento, il cardinale Vincenzo Maria Orsini (1650-1730), e del secondo principe di San Giorgio, Carlo II Spinelli (1634-1689), detto pure Fra Tuosto dopo la “conversione”. Infatti, suo nonno, il marchese Giovanni Battista III, il 28 ottobre 1638, per le gesta guerresche del fratello Carlo I (1575-1634), aveva ottenuto dal re di Spagna Filippo IV quel titolo nobiliare su di un feudo, che allora contava un centinaio di famiglie. Le quali, ancor più ridotte nella peste del 1656, edificarono al protettore S. Rocco – bellamente rappresentato in una tela del Seicento – una chiesa al Triggio;poi demolita perché angusta e fatiscente, ma ricostruita nel 1898. Così come sorse a Ginestra l’attuale chiesa rotonda in onore di S. Maria della Sanità. In quel pestifero anno morì anche l’anziano abate-curato don Lucio Caracciolo dei marchesi di Vico, che nella chiesa madre di San Giorgio aveva «eretto» una delle tre cappelle in onore di S. Filippo Neri. Era il 1630 e fu la prima a lui dedicata in tutto il Regno di Napoli! (Cfr. A. De Spirito, Il convento dei Minimi a San Giorgio del Sannio nei secoli XVI-XVII, in “Rivista Storica del Sannio”, n. 3, 1995, pp. 177-203).
Nei primi anni del Settecento il paese contava 715 anime in 135 famiglie così divise: Toppa 2, Fontana 12, Marzani 28, Triggio 17, Piano 38 e Casalnuovo pure 38. Carlo III Spinelli (1678-1742), favorendo un più ampio assetto urbanistico , dopo il terremoto del 1702 ricostruì il suo palazzo nei pressi del suddetto convento, dove era francescano suo fratello Pier Giovanni V col nome di Francesco Antonio Maria (1670-1729), e dalla chiesa, in cui erano sepolti – e lo saranno fino al 1864 – non solo i frati, ma anche la trisavola Lucrezia Caracciolo (1632), il padre Giovanni Battista IV (1692), la madre Lucrezia Longo Minutoli (1726) e molti laici, così come avveniva nell’antica chiesa alla Toppa, e in numero quasi uguale. Riedificato, dunque, il suo nuovo palazzo, «con grandezza veramente reale» e postavi innanzi una fontana a getto (prima del 1738), trasportandovi l’acqua dalla località Fontana, Carlo vi affiancò una nuova chiesa collegiata, ideata nel 1712 e iniziata nel 1721, in continuità con un piccolo monastero – progettato dall’architetto beneventano Carmine Zoppoli – per accogliervi «le sole discendenti del suo casato».
La chiesa, arredata con sei altari e il battistero, scolpiti dal marmista napoletano Giuseppe Bastelli, con sette grandi tele dell’artista, anch’egli napoletano, Nicola Criscuolo – restaurate nel 1995-2000 –, e con due del pittore beneventano Nicola Boraglia, donate dal cardinale Orsini – e anch’esse in via di restauro –, era già pronta nel 1729, quando costui, divenuto papa nel 1724 col nome di Benedetto XIII, tornò a Benevento per la seconda volta. Allora, invitato dal principe, visitò la chiesa e l’attiguo convento per le future monache: un caso alquanto singolare per la concomitanza nell’espletamento dei riti liturgici. Ma il papa «pontificia praesentia et maiestate visitando decoravit, et nedum constructionem approbavit, sed omnes gratias desuper petitas concessit». Tra le altre grazie, quella di confermare quale abate del collegio dei canonici il sangiorgese don Tommaso Rossi (1673-1743), scelto dal principe e già parroco di Montefusco da 25 anni, nonché teologo e filosofo. Le sue opere, molto apprezzate da Giambattista Vico, che lo disse «degno della più famosa Università dell’Europa», e nell’Ottocento notate anche da Luigi Settembrini e pochi altri filosofi, dopo più di due secoli e mezzo di oblio, hanno rivisto la luce, a mia cura. (Cfr. A. De Spirito, Tommaso Rossi. Opere filosofiche. Edizione di Storia e Letteratura, Roma 2006. Idem, Il filosofo Tommaso Rossi lodato da Vico e dall’Accademia Pontaniana, in “Atti Accademia Pontaniana”, n. 60, 2011, pp. 223-229. Idem, Il cardinale Orsini, san Filippo Neri e il terremoto in due tele del Settecento, in “Studium”, n. 5, 2013, pp.723-741).
Nei precedenti anni dell’episcopato sannita, l’Orsini era stato almeno 17 volte a San Giorgio (15 pernottandovi), non solo per la cura spirituale di quel migliaio di anime – e una volta per battezzare uno dei nove figli di Carlo –, ma anche per provvedere al loro “pane quotidiano”. Per quei poveri terrazzani istituì, a proprie spese, quattro Monti frumentari: due a San Giorgio (1692 e 1701), uno a Sant’Agnese (1701) e uno a Ginestra (1716). Essi erano una sorta di “Cassa depositi e prestiti” di grano, al fine di contrastare, qui come altrove in diocesi, non solo a parole o minacciando scomuniche, l’usura; e al contempo favorire braccianti e contadini spesso angariati da esosi proprietari. Ma si deve anche a lui, alla sua preparazione scientifica e straordinaria accortezza nella formazione e conservazione degli archivi parrocchiali, se gran parte della documentazione storica locale, non solo ecclesiastica e religiosa, ma anche sociale e culturale, si è potuta salvare. (Cfr. A. De Spirito, Culto e cultura nelle visite orsiniane. Prefazione di G. De Rosa, Edizioni Studium, Roma 2003. Idem, Visite pastorali di Vincenzo Maria Orsini nella diocesi di Benevento (1686-1730), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003).
Era, dunque, bella e finita la nuova chiesa, voluta dal principe, visitata dal papa, ma di cui si ignora l’architetto, quando, il 29 novembre 1732, accadde un terremoto ancor più «spaventevole» di quelli del 1688, 1694 e 1702. Distrusse la plurisecolare chiesa alla Toppa con la casa canonica, danneggiò gravemente la chiesa e il convento francescano, e delle 232 case ne «fracassò» 72 e ne lesionò 155 rendendole inabitabili. Così come pure il palazzo del principe, il monastero ancor privo di monache e la nuova chiesa parrocchiale, che perciò poté essere consacrata solo il 30 aprile 1737. Lo stesso anno in cui, il 1° giugno, giunsero da Roma quattro suore della Visitazione di S. Maria, e tra le prime monacande vi furono le due figlie del principe e la sorella del celebre economista e letterato napoletano Ferdinando Galiani. (Cfr. A. De Spirito, Nobildonne, sante e diavoli in convento, in “Studium”, n. 4, 1993, pp. 603-636).
Dopo la soppressione per le leggi napoleoniche, nel dicembre del 1810 il monastero venne «ristabilito come collegio di istruzione ed educazione per le fanciulle» e sovvenzionato dall’Amministrazione provinciale di Avellino, che sette anni dopo vi aggregò l’ex palazzo del principe, ceduto dal nipote Domenico Spinelli per 4.400 ducati. Affidato alle stesse religiose – che nel 1945 vi aprirono anche un asilo infantile –, fu tra i primi pochi educandati femminili dell’Italia meridionale; e sopravvisse per oltre 160 anni, fino al 1972. Hanno abitato, invece, per 284 anni quel monastero, ingrandito nel tempo, cento e più donne, perlopiù forestiere, che scandivano opere e giorni della vita claustrale al flebile canto della divina salmodia. Fino a quando, nel 2021, le ultime quattro, lo stesso giorno in cui giunsero le prime, lo hanno lasciato. Inaspettatamente e senza nemmeno un «Dio sia benedetto!», che è il tipico saluto delle Visitandine.
Sul finire del Settecento, dopo la carestia del 1764, che falcidiò in tutto il Regno più di 300.000 persone, e a San Giorgio ne morirono 84 a fronte delle 24 dell’anno precedente, nei 144 giorni della Repubblica partenopea anche qui fu piantato, prima ancora che a Benevento, l’Albero della libertà. Era il 3 febbraio 1799, domenica e giorno di mercato. Dopo giusto tre mesi, di forti paure più che di “forzata” euforia per l’avvenuta «democratizzazione», il ventenne principe Carlo Maria Spinelli, nipote di Carlo III, in uno scontro armato tra realisti borbonici, radunati in piazza dai vicini paesi, e i soldati francesi provenienti da Benevento e da lui guidati, fu colpito a morte «in mezzo allo Stradone» da un tenente della truppa di realisti di Pietradefusi con un tiro di schioppo. E, poiché quegli insorgenti lo ritenevano un “traditore del re”, fecero scempio del suo corpo, gli saccheggiarono il palazzo e assediarono per tre giorni il paese. Da dove molti sangiorgesi già se n’erano fuggiti. Sepolto nella chiesa madre, in una dimenticata botola aperta nel 1982, fu traslato, con la nonna paterna Maria Teresa Caracciolo e tre sorelline, nell’Ossario del cimitero. Dove lo ricorda una epigrafe marmorea, da me composta 220 anni dopo quel fatidico giorno. Il nonno Carlo III, invece, morto a Frasso Telesino, altro suo feudo acquistato nel 1730, è ricordato nel paese natale dal lungo viale che porta il suo nome; ma che, collegando da sempre Ginestra con San Giorgio, non fu «tracciato», né alberato da lui, come ha scritto qualcuno. Su quell’antico Stradone, fin là dove nel 1912 fu eretta la Croce di una Missione, vent’anni prima c’erano ancora solo trenta abitazioni. E a quell’incrocio, che da un lato menava a San Martino Sannita e dall’altro a Sant’Agnese, secoli addietro c’erano due osterie. L’una all’inizio della carreggiata, denominata via del Littorio fino al 1943; l’altra all’inizio di uno stretto e solitario sentiero che, oltrepassato un pubblico immondezzaio (ai Cardilli, dal cognome di una famiglia), sbucava a Sant’Agnese. (Cfr. A. De Spirito, Il 1799 a San Giorgio del Sannio tra rivoluzionari e insorgenti, in “Ricerche di Storia Sociale e Religiosa”, n. 57, 2000, pp. 117-142. Idem, I Principi Spinelli a Frasso, in “Moifà”, n. 3, 2009, pp. 3-5).
Nel XIX secolo, dopo la fine della feudalità (1806) e l’unione di Ginestra e Sant’Agnese al comune di San Giorgio (1811), tra le famiglie emergenti per livello economico e ceto sociale figuravano quelle dei Nisco e dei Bocchini. Le quali, avversarie tra loro per quasi cent’anni, segnarono non poco, per fas et nefas, la vita del paese e la vicenda politica di Niccola Nisco (1816-1901), patriota risorgimentale e parlamentare del Regno. (Cfr. A. De Spirito, Niccola Nisco. Una vita per la patria e l’amore coniugale. Presentazione di M. Pepe, Edizioni Studium, Roma 2019).
A metà Ottocento, secondo la Relazione Cirelli, i 1830 sangiorgesi abitavano in pochi grandi fabbricati e in casupole «da chiamarsi piuttosto tuguri e talune bugigattoli». Attingevano l’acqua da alcuni pozzi e da 8 fontane, ma l’igiene pubblica e privata, era «generalmente più che riprovevole». C’erano 3 frantoi per le olive, 3 macchine per maccheroni, 37 negozi di generi alimentari e diversi, 2 caffè, 2 taverne, 2 farmacie, 1 medico, 1 chirurgo, 1 levatrice e 4 salassatori. Per i trasporti ci si serviva di somari «in numero sufficiente» e di un solo vetturale. Una banda musicale di 22 dilettanti allietava le feste religiose e «per divertirsi» alcuni esercitavano la caccia. All’istruzione provvedeva, oltre al Collegio delle Suore della Visitazione per fanciulle benestanti, una sola scuola elementare, e per di più «di poco o niun profitto». Pertanto, l’inadeguata formazione civica degli abitanti e il verificarsi di «un ingente numero di ferite, percosse ed ingiurie», facevano ritenere la loro condotta morale «incline alla rissa, alla maldicenza e alla vendetta». Infine, se alcune donne si dedicavano all’allevamento dei bachi da seta e alla lavorazione di fettucce di canapa o di lino «di qualche pregio», molte altre, ragazze o adulte, avendo quasi ogni famiglia un gregge da cinque a dieci pecore o capre, «portavano al pascolo e riconducevano a casa [sic] quegli animali». Dunque, la massima parte dei sangiorgesi era dedita alla pastorizia e alla cura dei campi, anche di tabacco. Sicché, per interessamento di Niccola Nisco, ma con «la spesa interamente sopportata dal Comune», fu istituita nel 1886 l’Agenzia delle coltivazioni del tabacco, che fu chiusa nel 2002, e dove avevano lavorato operai e operaie.
All’alba del Novecento, se l’aspetto del paese, che aveva raggiunto i 3500 abitanti, non era cambiato di molto, negli anni a venire le grandi innovazioni tecnologiche e gli eventi internazionali influirono in modo determinante anche in quel borgo dell’entroterra campano. Si pensi all’arrivo della luce elettrica nel marzo del 1913 e al completamento della rete idrica per l’acqua in casa negli anni Sessanta; alla scuola elementare obbligatoria per i bambini dai sei ai nove anni, prevista dalla Legge Coppino del 1877; alla istituzione della scuola media, intitolata al Nisco, e poi al liceo classico “Virgilio” nel 1946; sicché, cinquant’anni dopo, il numero degli studenti universitari era di circa 250 in 3000 famiglie. Dopo le leggi eversive del 1866, che confiscarono i beni ecclesiastici, nei locali dell’antico convento francescano erano ubicati, non solo l’Agenzia dei Tabacchi (nell’ex giardino) e la scuola elementare, ma anche due depositi comunali, le poste e telegrafo, il carcere mandamentale (chiuso nel 1998) e, preceduto dal Circolo dell’Unione, il Circolo “Vittorio Emanuele III”, poi “Trieste”, voluto dal sindaco Errico Nisco nel 1900, per il gioco delle carte e l’intrattenimento. In quel convento, ritornato ai Frati, sorsero – e durarono quasi trent’anni – l’Orfanatrofio Francescano dei Monopòli di Stato nel 1950 e il Centro di Addestramento Professionale nel 1954: l’uno accogliendo fino a 70 ragazzi d’ogni parte d’Italia, l’altro fino a 250 apprendisti. (Cfr. A. De Spirito, L’Orfanatrofio Francescano di San Giorgio del Sannio, ivi, 2011).
Anche l’associazionismo ludico-sportivo era attivo in paese; ma nella prima metà del secolo più ancora lo era quello socio-religioso. Un esempio è dato dall’Opera S. Maria del Carmine per le Orfanelle, voluta nel 1938 da una giovane madre, Immacolata Bocchini (1907-1938), e dal munifico avvocato Vittorio Baldassarre (1897-193 9), ambedue Terziari Francescani, coadiuvati da molte altre donne e uomini, anche emigrati all’estero e organizzati in dieci comitati. Unica nell’allora Mandamento di San Giorgio, quell’opera umanitaria si è poi trasformata in Casa di riposo per anziane. Costituiva, altresì, una primizia la creazione di due Associazioni gerardine, promosse nel 1902 dal sacerdote don Alberto Cozzi: l’una con più di 120 ragazzi dai sei ai diciotto anni, e una fanfara; l’altra di 200 socie, dirette da Maria Nisco, sposa nel 1909 del futuro podestà Gustavo Bocchini. Ma quando, nella visita pastorale del 1940, in paese c’erano ancora due tradizionali Confraternite di 30 uomini e 30 donne, e un Terz’Ordine Francescano di 150 iscritte/i, quelle due innovative associazioni non figuravano più; e la prima era già stata soppressa dal fascismo nel 1929.
A San Giorgio del Sannio, i tre terremoti del secolo: 23 luglio 1930, 21 agosto 1962, 23 novembre 1980, e le due guerre mondiali, non lasciarono morti o feriti. Ma, come ricorda il monumento ai Caduti, inaugurato nel 1929 dal Capo della polizia fascista, il conterraneo Arturo Bocchini, nella prima morirono al fronte 64 sangiorgesi, nella seconda 36. Benevento, invece, nell’agosto-settembre del 1943 fu bombardata cinque volte dagli Angloamericani e vi furono più di 2000 morti. San Giorgio fortunatamente fu risparmiato, nonostante l’arrivo dei Tedeschi, le perquisizioni, le rapine e tanta paura, che costrinse molti a rifugiarsi nei villaggi vicini. In quello stesso anno, vennero trasportate e messe al sicuro nel suddetto convento francescano 123 casse di libri della Biblioteca Nazionale di Napoli e 5 della Biblioteca dei Girolamini. Là dove aveva studiato Giambattista Vico. E, forse, anche il suo stimato collega ed amico, il filosofo don Tommaso Rossi. Il quale da San Giorgio ebbe a scrivere 280 anni fa e – oggi come ieri – rammaricarsi: «Viviamo in luogo dove povere biblioteche somiglianti opere non sogliono somministrare». (Cfr. A. De Spirito, Il 1943 nel diario di un prete sfollato a San Giorgio del Sannio, in “Ricerche di Storia Sociale e Religiosa”, n. 74, 2008, pp. 173-201).